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L’Italia fuori dai mondiali: finiti i circenses, concentriamoci sul panem

  • Immagine del redattore: Nicola Spadafora
    Nicola Spadafora
  • 25 mar 2022
  • Tempo di lettura: 2 min


L’Italia di mister Roberto Mancini, dopo il trionfo agli Europei 2021, ieri sera è stata eliminata dalla qualificazione ai Mondiali 2022 del Qatar. Un vero e proprio choc per il mondo sportivo e non solo, causato da un gol a tempo praticamente scaduto messo a segno dalla cenerentola Macedonia del Nord. Che prosegue con merito il suo percorso.

Non so voi, ma io sono un grande tifoso: per quanto avevo esultato la scorsa estate per la vittoria in finale contro l’Inghilterra, di contro ieri sera sono rimasto davvero senza parole.

C’è qualcosa che si può imparare da una sconfitta? Senz’altro. Ogni caduta, passato il giusto tempo, fortifica. In ambito sportivo la Federazione italiana gioco calcio farà le sue opportune valutazioni.

Ma noi italiani, alle prese con tante difficoltà, cosa ci portiamo a casa di positivo da questa batosta calcistica?

Un piccolo passo indietro: ricordate come il calcio sia stata una delle poche attività non essenziali a non aver mai praticamente chiuso durante la pandemia? Non dico che sia stata una scelta sbagliata...

Però, mi ha fatto tornare in mente ciò che gli antichi romani definivano “panem et circenses”: cioè, i governanti si guadagnavano il favore delle masse garantendogli il mangiare e il divertimento.

Se da ieri sera l’Italia dei “circenses” per qualche mese è stata archiviata, tutti noi italiani cerchiamo di dedicarci anima e corpo al “panem” e pretendiamo che facciano altrettanto i nostri rappresentanti al Governo. “Panem” che detto in altre parole, si chiama “lavoro”.

Fuori di metafora, oggi il lavoro e l’economia vanno a rotoli. Viviamo una profonda crisi, dovuta a pessime politiche attuate da decenni a questa parte, a cui si sono aggiunte le difficoltà di due anni di pandemia e le più recenti del conflitto in Ucraina.

Tra quattro anni torneremo a giocarci le qualificazioni ai Mondiali 2026. Ma del lavoro e di un’economia che si riprenda abbiamo bisogno oggi.

O mi sbaglio?

 
 
 

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